Abelardo ed Eloisa

di Alfredo Cosco

Abelardo

Questa storia sembra una leggenda.
L’amore tra il grande Abelardo ed Eloisa. Un amore estremo dalle conseguenze estreme.

Abelardo, nato nel 1079 in Bretagna, è il primo ad incarnare lo spirito della ricerca e della libertà investigativa della ragione. Non era sicuramente un “illuminista”. Come per quasi tutti gli uomini del Medioevo, anche per lui l’ordine divino è a fondamento della realtà. Ma, alle verità di fede, come ad ogni altra conoscenza o dimensione del reale, vuole approcciarsi tramite la comprensione razionale. Una delle sue caratteristiche era quella di affrontare in modo razionale ogni verità; di affrontare ogni questione problematica con lo strumento della dialettica. Tutto, anche la fede, deve essere aperto alla comprensione umana. E la ragione che si manifesta della ricerca, diventa, nella sua visione del mondo, veicolo di libertà.
Abelardo è una figura geniale, indubbiamente uno degli uomini più grandi del Medioevo. Il suo raro un carisma, la sua eloquenza e la sua abilità dialettica senza portarono persone di ogni parte d’Europa ad affrontare ogni sacrifico per andare ad ascoltarlo. Ma contribuirono anche a scatenargli contro invidie ed odi implacabili.
Abelardo fece per anni una vita avventurosa, che poi era la vita che gli studenti dell’epoca abbracciavano. Andare in giro per il mondo, per abbrancare il sapere; cercando maestri da cui potessero acquisire la luce della conoscenza. Fu allievo anche di Roscellino e di due notevolissimi personaggi come Guglielmo di Champeaux e Anselmo d’Aosta. Riuscirà a farsi odiare da tutti loro. Perché Abelardo era implacabile nell’arte della disputa, molto diffusa nel Medioevo. Entrava in discussione con loro, senza alcuna considerazione del loro ruolo di maestri autorevoli, e demoliva le loro argomentazione che considerava fallaci.
C’era probabilmente qualcosa di arrogante, da parte sua, nel modo di manifestare la sua superiorità intellettuale e dialettica. Lui stesso lo ammette, quando nella sua biografia scriverà che per via della sua superbia “mi ritenevo il solo filosofo rimasto al mondo”. Anche questo contribuì a fare lievitare il numero di coloro che lo vedevamo come il fumo negli occhi.
Quando giunse a Parigi per occupare la prestigiosa cattedra di Dialettica e Teologia presso la Cattedrale di Notredame, all’età di circa 38 anni, Abelardo era all’apice del suo successo. Ed è lì che incontrò Eloisa.
Eloisa -probabilmente l’unica donna a seguire le sue lezioni- all’epoca aveva solo 16 anni ed era ritenuta una bellezza. Ma soprattutto la sua grande cultura impressionava in un’epoca dove erano rarissime le donne che si incamminavano sui sentieri dell’intelletto e della ricerca filosofia e spirituale.
Abelardo nel vederla ne rimase infiammato. Eloisa viveva con lo zio Fulberto, canonico di Notredame. Fulberto voleva che Eloisa diventasse sempre più colta e quando Abelardo gli propose di dare lezioni private alla nipote in cambio di alloggio presso la loro casa. Fulberto non ebbe bisogno di sentirselo ripetere una seconda volta. In cambio dell’alloggio la possibilità di avere in casa uno dei più celebri maestri di quel tempo? Che straordinaria occasione sarebbe stata per sua nipote.
E così Abelardo iniziò le sue lezioni ad Eloisa. E presto la filosofia si accompagnò ad una sconfinata passione.
Nel 1132, a più di 50 anni, Abelardo scrisse un’autobiografia in forma di lettera ad un amico. Autobiografia che venne intitolata “Storia delle mie sventure”.
Nella sua biografia Abelardo, quando parla di quei momenti con Eloisa, sembra volere, alle volte, squalificare se stesso, dando ad intendere che si era trattato soprattutto di concupiscenza carnale. Ma le sue stesse parole rivelano come quello che si scatenò fra loro fu qualcosa di molto più potente di una “semplice” soddisfazione erotica.
Ecco un passaggio..

“Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo completamente all’amore, lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affannavano di più intorno ad argomenti d’amore che di studio, erano più numerosi i baci che le frasi; la mano correva più spesso sul seno che ai libri. E ciò che si rifletteva nei nostri occhi era molto più spesso l’amore che non la pagina scritta oggetto della lezione. Per non suscitare sospetti la percuotevo spinto però dall’amore, non dal furore, dall’affetto non dall’ira, e queste percosse erano più soavi di qualsiasi balsamo. Il nostro desiderio non trascurò nessun aspetto dell’amore, ogni volta che la nostra passione poté inventare qualcosa di insolito, subito lo provammo, e quanto più eravamo inesperti in questi piaceri tanto più ardentemente ci dedicavamo ad essi e non ci stancavamo mai. Quanto più eravamo inesperti di quei giochi d’amore, tanto più insistevamo nel procurarci il piacere e non arrivavamo mai a stancarcene”.

Nella suo testo biografico, userà spesso la parola “amore”, e lui, immenso nella logica, non usava le parole con superficialità.
Abelardo ricorda le poesie di amore che componeva per Eloisa. Poesie che i suoi adoranti studenti imparavano a memoria e cantavano per le vie di Parigi. Nell’immaginare questi studenti venuti da mezza Europa cantare allegramente per Parigi le poesie di Abelardo, ci si spalanca davanti agli occhi un’epoca incredibile. Un’epoca di crudeltà feroci e di misticismo. Un’epoca di tradimenti totali e di poesia errante. Un’epoca di fanatismo religioso e di delirio dialettico. Un’epoca dove gran parte della popolazione era analfabeta, ma coloro che si incamminavano sulla via dello studio erano divorati dalla bramosia del sapere. Accorrevano da tutta Europa per cercare un maestro, lo adoravano e, con goliardia intrisa di empatia ed ammirazione, cantavano le sua canzoni sentendosi parte della sua stessa anima.
Gran parte della forza vitale di Abelardo si manifestava nell’amore piuttosto che nello studio e nell’insegnamento..

” Andare a far lezione mi riusciva penoso e anche faticoso perché le mie notti erano dedicate all’amore e le giornate allo studio. Facevo lezioni trascurate e prive di entusiasmo: non dicevo nulla di originale e frutto del mio ingegno, ma soltanto cose suggerite dalla mia lunga pratica. Mi limitavo a ripetere quello che avevo trovato con il mio ingegno nel passato [. .. ] le uniche cose nuove erano le mie canzoni d’amore, quelle canzoni ancor oggi cantate in molte regioni da coloro ai quali la vita sorride come allora sorrideva a noi (… )”.
Parole come queste potrebbero essere scritte da chi abbia provato solo un godimento carnale?
Naturalmente se i discepoli di Abelardo cantavano spensieratamente per le vie di Parigi le poesie dedicate ad Eloisa, non passò molto tempo che gran parte di Parigi sapesse di quanto stava avvenendo tra Abelardo ed Eloisa. Uno dei pochissimi che ancora non aveva afferrato nulla era lo zio Fulberto.

Arrivò, però, anche il giorno in cui Fulberto scoprì come stavano le cose e non fu esattamente entusiasta. I due, allora, fecero finta di smettere di vedersi. Ma non avevano alcuna intenzione di farlo davvero. Gli incontri continuarono e presto Eloisa si ritrovò incinta. Abelardo allora la “rapì” (uno di quei rapimenti dove il “rapito” è totalmente consenziente” e la condusse in Bretagna, dove nascerà loro figlio a cui viene dato il nome di Astrolabio; “colui che abbraccia le stelle”. Fulberto impazzì dalla rabbia, dal dolore, dalla vergogna. Abelardo tornò da Fulberto e si dichiarò pronto a sposare la nipote, ma in segreto, per evitare che la sua carriera ne risultasse danneggiata. In questo non fu più grande del suo tempo. Se il matrimonio fosse stato “pubblico”, forse quello che poi accadde, non sarebbe accaduto.
Fulberto, comunque, accetta la proposta di Abelardo, baciandolo e abbracciandolo.
Il matrimonio incontrava la contrarietà di Eloisa, ma solo perché il bene di Abelardo gli era così immensamente caro che non voleva che la sua carriera e il suo prestigio fossero danneggiati. Utilizzò tutte le armi retoriche per dissuaderlo, mettendo in campo anche riferimenti tratti dalla filosofia e dalla storia. Come quando gli disse:

“cos’hanno in comune le assemblee degli scolari con le ancelle, gli scrittoi con le culle, i libri e le tavolette con i mestoli, gli stili e le penne con i fusi?. Come può chi è intento alla meditazione di testi sacri e filosofici sopportare il pianto dei bambini, le nenie delle nutrici che cercano di calmarli, la folla rumorosa dei servi?”.
Il matrimonio segreto si fece, ma, successivamente, Fulberto e i suoi parenti iniziarono a diffondere la notizia in tutta Parigi. Eloisa di fronte alla gente negava che ci fosse stato alcun matrimonio e questo faceva letteralmente imbestialire Fulberto. Abelardo, preso alla sprovvista, chiese ad Eloisa di entrare nel monastero dell’Argenteuil. Venutolo a sapere, lo zio e i parenti cedettero che lui volesse sbarazzarsi di lei facendola diventare monaca. Alcuni studiosi hanno però sollevato qualche dubbio sul fatto che questa fosse la reale intenzione di Abelardo, o non si trattasse, invece, di un espediente momentaneo in attesa di riordinarsi le ide e capire come procedere.
Fulberto e i parenti, però, erano furibondi e pronti a vendicarsi. E la vendetta fu tremenda. Una notte, tre uomini entrarono nella casa di Abelardo e, arrivati nella sua stanza, dove stava dormendo, uno di loro gli tagliò il pene e i testicoli.
La mattina del giorno dopo la notizia si era diffusa in tutta Parigi, e molti giunsero nei presi della sua casa piangendo e urlando. Tra i più disperati c’erano i suoi studenti. E Abelardo racconta come, vedendoli così devastati dal dolore, la compassione per loro fu più forte del dolore, dell’umiliazione, della disperazione per quello che gli era stato fatto.

L’evirazione fu l’inizio di un’epoca, durata fino alla sua morte, in cui Abelardo fu oggetto di ininterrotte sventure e persecuzioni.
Dopo essere stato mutilato, Eloisa divenne definitivamente monaca. Lui le aveva chiesto di restare in convento. In Eloisa non vi era in lei alcuna folgorante vocazione religiosa. Fece proprio il percorso monacale perché lui glielo aveva chiesto.
Abelardo finì nel monastero di San Dionigi, presso il quale i suoi discepoli si erano precipitati per chiedergli di riprendere gli studi e le lezioni. I monaci e l’abate –per tenerselo lontano, visto che lui contrastava il loro agire peccaminoso- assecondarono la richiesta, assegnandogli un eremo per lo studio e l’insegnamento. Di nuovo accorsero da tutta Europa caterve di allievi pronti a tutto pur di sentirlo.
E di nuovo si scatenò l’invidia e l’odio verso quest’uomo di cui molti non sopportavano né la popolarità che aveva, né l’ intelligenza acuta, né l’eloquenza invincibile, né l’umiliazione dialettica che aveva inflitto ad alcuni grandi maestri , né le teorie per l’evoca audaci.
Uno dei pretesti per distruggerlo fu un libro, il De unitate et trinitae divina, che lui scrisse su pressione degli studenti che gli avevano chiesto spiegazioni razionali e filosofiche del mistero della trinità. A causa di questo libro i suoi avversari fecero addirittura indire un concilio contro di lui che si tenne a Soissons.
Quando Abelardo arrivò al concilio non potè veramente difendersi, avendo già, i suoi nemici, con la diffusione di notizie tendenziose, creato un clima di forte ostilità verso di lui.
Eppure anche in quel contesto vi furono parole di saggezza, come quelle del vescovo di Chartres..

“Se ora lo condannate, anche se giustamente, sappiate che offenderete molte persone, e saranno molti a volerlo difendere, soprattutto perché non abbiamo trovato nel suo scritto nessun’affermazione che possa essere pubblicamente condannata. Fate attenzione a non essere proprio voi, comportandovi con arroganza, ad aumentare la sua fama, affinché non si diventi noi più colpevoli a causa dell’invidia, che lui a causa della giustizia…Se decidete di procedere contro di lui, secondo il diritto canonico, dovete esaminare il suo pensiero o il suo scritto, e se lo interrogate dovete lasciarlo parlare liberamente così che colpevole o pentito, taccia poi per sempre”.

Il vostro accanimento verso di lui dimostra arroganza, pregiudizio e invidia, voleva sostanzialmente dire. Ma i nemici di Aberlardo erano così potenti che arrivarono ad imporgli di bruciare il libro con le proprie mani. In un altro momento del concilio, essendogli stato chiesto di esporre la sua fede, non gli venne permesso di parlare liberamente, ma dovette recitare il Simbolo di Attanasio, quaranta proposizioni ritmiche che compendiavano le verità della fede; una sorta di bignami delle verità religiose fondamentali fatto imparare ai bambini. Abelardo lesse quelle parole tra le lacrime, consapevole che si stava cercando di infliggergli una umiliazione totale. Fu anche condannato alla prigionia presso l’abbazia di Saint Mèdard di Soissons. Successivamente gli si permise di tornare al monastero di San Dionigi, dove si manifestò nuovamente, verso di lui, l’ostilità dei monaci.
Dopo alterne vicende ad Abelardo fu consentito di andare ad abitare in un luogo solitario, e si trattava di un posto isolato dalle parti di Troyes, un pezzo di terra che ottenne in regalo dal vescovo. Anche stavolta gli studenti giunsero innumerevoli. Essi, che in molti casi lasciavano castelli, case, una vita comoda e si costruivano capanne di paglia dove abitare. Si nutrivano di erbe selvatiche e pane duro. Lavorano come bestie per procurare ad Abelardo tutto quello di cui avesse bisogno; cibo, vestiario e tutto il resto. Non c’era sforzo e sacrificio che non avrebbero fatto per consentirgli di continuare i suoi studi e di continuare ad insegnare. Essi, in quel luogo, eressero anche un oratorio, a cui fu dato il nome di Paracleto. In greco “paràcletòs” significa “consolatore” ed è la principale prerogativa dello Spirito Santo. In sostanza l’oratorio era dedicato allo Spirito Santo.
Ma come non cessava mai la dedizione e l’amore che i suoi discepoli avevano per lui; non cessavano neanche l’invidia e l’odio dei suoi nemici. Tra essi vi fu pure il celebre Bernando di Chiaravalle. Bernando, che venne poi nominato santo, ed è sempre stato considerato un gigante del medioevo cristiano. In lui erano presenti fortissimi lati oscuri. Estremamente autoritario, poteva diventare violento, minaccioso, intollerante quando voleva ottenere qualcosa o voleva prevalere qualcuno. Aveva una forte personalità e una notevole influenza sulle alte personalità del suo tempo, papa compreso; e utilizzò questa influenza per raggiungere gli scopi che si prefiggeva.
Nel 1128 Abelardo diventa abate di Sant Gildas in Bretagna. Qui trova monaci profondamente intrisi di corruzione e malvagità che cercano in tutti i modi di farlo morire, tentando anche di somministrargli veleno.
In quegli anni venne sciolta la comunità monastica femminile dell’Argenteuil; e le suore che la componevano sarebbero dovute essere disperse tra vari monasteri. Abelardo volle offrire ad Eloisa, per lei e per le sue monache, l’oratorio del Paracleto come luogo in cui stabilirsi. Eloisa accettò l’offerta e, insieme a un gruppo di monache, prese dimora in quel luogo. Abelardo continuava ad andare al Paracleto per fare prediche, che attiravano fedeli e donazioni; donazioni che lui destinò alla crescita di quella che era diventata la nuova sede di Eloisa e delle monache che l’avevano seguita. Ma in questa storia calunnia e malafede sono senza inarrestabili. Uno dei vecchi maestri di Abelardo, Roscellino, lo accusò di “raccogliere denaro con il prezzo del suo insegnamento per portarlo correndo alla sua puttana”.
C’è qualche dubbio su quello che avvenne negli anni immediatamente seguenti. Sicuramente, però, Abelardo nel 1136 egli è di nuovo a Parigi, a tenere una libera scuola di dialettica e teologia.
Ma la persecuzione contro di lui continua più vigorosa che mai, con Bernardo di Chiaravalle il più accanito a portarla avanti. Abelardo, allora, chiede all’arcivescovo di Sens di convocare, per la Pentecoste del 1140, un concilio dove sia lui che Bernardo avrebbero potuto esporre le loro argomentazioni. Ma Bernardo ben sapeva che nel confronto dialettico Abelardo era imbattibile, e allora gioca d’anticipo, in modo totalmente scorretto. Il giorno precedente a quello dell’incontro fa condannare dai vescovi presunte proposizioni eretiche contenute nei testi di Abelardo. Quando Abelardo giunge il 3 giugno 1140 presso la Cattedrale di Sens, trova ad attenderlo un folto pubblico di preti, nobili, monaci, studenti. Non manca neanche il Re di Francia. Abelardo capisce che quello che doveva essere un confronto alla pari, era stato abilmente trasformato da Bernardo in una sorta di “processo dell’anno” per farlo condannare per eresia. Nonostante ciò, l’Abelardo che tutti conoscevano non si sarebbe mai tirato indietro, e avrebbe accettato la battaglia, per quanto su un campo da gioco “truccato”. Furono perciò tutti sorpresi quando Abelardo disse semplicemente che avrebbe fatto ricorso a Roma e abbandona la cattedrale.
Bernardo si mise in cammino per raggiungere Roma e conferire col Papa. Ma durante il suo viaggio, le lettere di Bernardo raggiunsero il Papa che, dietro sua sollecitazione, condannò, come eretiche, tutte le opere di Abelardo.
Abelardo non raggiunse mai Roma. Durante il suo viaggio si fermò presso il monastero di Cluny, retto dall’abate Pietro il Venerabile, una nobilissima figura che incarnava, in tempo di lupi feroci, veramente i valori cristiani. Pietro il Venerabile accolse Abelardo con grande umanità, e gli ultimi due anni della sua vita –dedicati alla preghiera, alla lettura e alla scrittura- Abelardo li passò in quel monastero, dove morirà nel 1142. Eloisa volle che il suo corpo fosse seppellito nel convento del Paracleto.
Ventidue anni dopo, nel 1164, morì anche Eloisa che viene sepolta, secondo quella che era la sua volontà accanto ad Abelardo.
una romantica leggenda riferisce che le braccia del cadavere di Abelardo si aprissero nel momento della deposizione della moglie.

E adesso andiamo alle lettere che Eloisa scrisse ad Abelardo.
Qualche tempo dopo che Abelardo scrisse “Storia delle mie sventure”, quel testo arrivò nelle mani di Eloisa. Lei lo lesse e gli scrisse una lettera il cui incipit è

“Al suo signore, o meglio al padre: al suo sposo, o meglio al fratello, la sua serva, o meglio la figlia; la sua sposa, o meglio la sorella – ad Abelardo, Eloisa”.

Con questa lettera inizia tra i due un carteggio memorabile.
Ecco alcuni passaggi dalle lettere di Eloisa..

“Anche quando dormo immagini ingannevoli mi perseguitano; persino durante la messa, quando la preghiera deve essere più pura, i turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia anima. lo sono costretta ad abbandonarmi a queste fantasie incapace persino di pregare. Invece di piangere, pentita per il passato, sospiro rimpiangendo quello che ho perduto. Ho davanti agli occhi sempre e soltanto te, l’amore che abbiamo avuto, i luoghi dove ci siamo amati, i momenti dove siamo stati vicini. Mi sembra di essere li ancora e neppure nel sonno riesco a calmarmi. Talvolta da un leggero movimento del mio corpo o da una parola che non sono riuscita a trattenere tutti capiscono i miei pensieri”.

“La gente vanta la mia castità perché non sa che sono ipocrita. Chiamano virtù l’astinenza del corpo, e invece la virtù non è nel corpo ma nell’anima. Dagli uomini posso anche essere lodata, ma presso Dio non ho nessun merito perché egli fruga il cuore e le reni e vede nell’intimo”.

“Componevi per me quasi come per gioco quelle canzoni amorose che, divulgate dappertutto per la soavità delle parole e la bellezza della musica, ti resero famoso anche fra la folla dei semplici (…). Le donne sospiravano e poiché le canzoni celebravano il tuo amore per me, anche il mio nome divenne famoso e io ero invidiata in tutti i paesi (…)”.

“(…) quanto più profonda è la radice del male, tanto più forti saranno i rimedi del conforto, che non devono venire da nessuno se non da te; e poiché tu solo sei la causa del male, tu solo puoi guarirmi. Tu sei il solo, infatti, che possa affliggermi, e il solo che possa allietarmi o consolarmi. E sei anche il solo a dovermi particolarmente tanto, visto che ho seguito ogni tuo comando al punto che – non volendo in alcun modo arrecarti dispiacere – sono giunta a perdere me stessa, pur di obbedirti. Ma ciò che più conta è che il mio amore fu a condurmi a una follia tale che ha allontanato da sé senza la speranza di poterlo riavere mai più l’oggetto stesso del suo desiderio. (…). E Dio sa che in te non ho mai amato altro che te stesso: che solo te ho desiderato, non ciò che tu possedevi.”

“Non mi ripromisi patti nuziali, né prerogative di sorta; né, come ben vedesti, mi adoperai a raggiungere voluttà né volontà mie, ma tue. E se più santo e più valido sembra il nome di moglie, il nome di amica mi è sempre stato più dolce, o se non ti sdegni, di amante o concubina”.

“Chiamo Dio come mio testimone: se lo stesso Augusto signore del mondo intero mi avesse degnato dell’onore di sposarlo, e mi avesse offerto così il dominio perpetuo del mondo, sarebbe stata per me cosa più cara e degna esser detta tua prostituta piuttosto che sua imperatrice.”

Le lettere di Eloisa sono l’ininterrotta manifestazione di una passione ardente. Queste lettere sono una celebrazione eterna del sentimento indomabile e dell’amore sublime.

“Per Eloisa, nel mondo intero, tra tutte le persone, i pensieri, gli oggetti e le cause e le possibilità, esiste solo Abelardo. Abelardo è il suo signore, padre, fratello, amante, sposo: tutti i rapporti affettivi si concentrano in lui. Non c’ è altri al mondo, né nel passato né nel presente. E se Girolamo, Agostino e, negli stessi anni, Bernardo avevano detto che c’ è un solo modo di amare Dio: di un amore immoderato: lei, che si è nutrita di quei testi e li ha fatti propri, con una grandiosa empietà e una follia di cui è perfettamente cosciente, dedica questo amore immoderato a una creatura terrena: Abelardo” (Pietro Citati)

Mentre in Eloisa c’è ancora la donna in tutta l’intensità possibile e immaginabile, nelle lettere di Abelardo sembra esserci soprattutto il monaco. Sono lettere impregnate di pentimento, di richiamo all’amore divino. Sono lettere in cui Abelardo sembra cercare di mettere le distanze dal piano passionale e sentimentale, per rivolgersi a lei come compagna di fede.
Ma, nel valutare Abelardo e il suo approccio nelle lettere, che appare “distaccato” sul piano sentimentale, noi non dobbiamo dimenticare tutto quello che lui aveva vissuto. Abelardo aveva subito il trauma dell’evirazione. Successivamente aveva subito ogni genere di persecuzione, dalle condanne (poi mitigate) per eresia ai tentativi di avvelenamento dei monaci. Consideriamo anche il logorio fisico per i tanti spostamenti in un tempo in cui viaggiare non era privo di fatica e pericoli. Immaginiamo quest’uomo sessualmente menomato, fisicamente stanco, interiormente ferito, dedicarsi con rigore al percorso religioso. Immaginiamo anche come, dopo quanto avevano vissuto lui ed Eloisa, e dato che le loro lettere potevano essere lette da altri, non volesse che i tanti nemici agissero distruttivamente contro lui e contro di lei. Tutte queste cose possono aiutarci a comprendere, almeno in parte, il perché le lettere di Abelardo non siano quel capolavoro del sentimento e della passione che invece sono le lettere di Eloisa.
Eppure, Abelardo era lo stesso che qualche anno prima aveva scritto “Storia delle mie sventure” dove rievocava in modo impressionantemente vivido la violenta e sublime passione che vi era stata tra lui ed Eloisa.
Ed era lo stesso Abelardo che nelle sue ultime lettere gli scrisse cose potenti come..

“Tu ci unisti, o Signore, e ci dividesti, quando e come ti piacque. Ed ora, o Signore, porta misericordiosamente a compimento quel che misericordiosamente iniziasti. Tu che una volta ci hai diviso nel mondo, congiungici a te eternamente nel cielo (..)”.
E soprattutto.. era lo stesso Abelardo che, in punto di morte, le dedicherà queste parole..

“Ricordati che io ti appartengo”.

Alfredo Cosco

Alfredo Cosco 2

Abelardo ed Eloisa
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