mitos

Mio padre, giovanissimo, nel 1978, ovvero 37 anni fa, pubblicò un libro, dove raccoglieva antiche fiabe del paese di Pizzo Calabro. Quelle fiabe le raccolse da una vecchietta, che veniva chiamata “zia Carmelina” e nel libro sono presenti sia “in lingua originale”, nel dialetto di Pizzo, sia nell’originale italiano. Quella vecchietta era probabilmente l’ultima persona a ricordare quelle fiabe. Con la sua morte esse si sarebbero perse per sempre, se non fossero state “raccolte” prima. Infatti, nelle righe di premessa del libro è scritto, tra le altre cose:  

“Ringrazio la vecchietta che mi ha raccontato queste fiabe, “zia Carmelina”, consentendomi così di raccogliere le foglie prima che le smarrise il vento”. 

Prima delle fiabe, nel libro è presente un saggio introduttivo, dove Giuseppe Cosco parla del rapporto tra le fiabe, i miti e i simboli millenari, con incursioni nella psicologia del profonda, nell’esoterismo e nel misticismo orientale.

Si tratta di un saggio che potrà avere anche dei limiti, visto 37 anni dopo. Ma che resta, a mio parare, nella sua essenza, ancora vivo e vitale. Uno scritto che viene da una persona che allora aveva 28 anni, e da un’epoca in cui non c’era facebook, non c’era internet, pochissimi avevano il computer e lui scriveva parole come questa su una macchina da scrivere.

Rileggendo questo saggio, ho pensato di condividerlo (non riportando le note a margine per semplificare la lettura) con chi volesse leggere qualcosa di così lontano dall’attualità, non nel senso di “passato”, ma di “oltre ogni specifico tempo”.

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“Prodigiosa fu la visione intera:
innumerevoli le bocche, innumerevoli

gli occhi, in questa forma universale…
e senza fine che tutto pervade”.
BHAGAVAD-GITA (XI.10-11)

Disse una volta Shiller: . Oggi l’uomo ha perso questo significato, lo ha perso da quando non è più ciò che fu tanti secoli addietro e neppure riesce a sapere cosa è diventato. Egli ha paura di se stesso, di quanto non comprende, di ciò che ha sede sotto quella soglia delle cose tangibili. Intuisce strane presenze in certi sogni e torbide sensazioni nel suo essere, e allora è un correre precipitoso all’aperto, alla luce del giorno, per dimenticare subito quel vago malessere che l’ha preso, quella sottile inquietudine; precludendo, irrimediabilmente, se stesso, privandosi degli “istinti” e delle “radici”. Sradicato dalla sua più vera natura, ora, gli è incomprensibile la realtà dell’anima, il cui spazio “… è incommensurabilmente grande e colmo di realtà vivente”.

Quando volge il capo alla tradizione, non coglie niente altro, che un significato oscuro e si muove a tentoni, senza più neppure la guida delle stelle. Il calcolo dell’ora natale non ha più niente da dirgli. Quando scoprì che l’equinozio di primavera, per la precessione degli equinozi rispetto alla corrispondenza dei segni, non coincideva più al grado O dell’ariete, capì che ogni oroscopo era arbitrario. Dopo la caduta degli “dei” l’uomo è inquieto nella solidità della sua “civilizzazione”, ben diversa dalla “civiltà” che nasce dallo spirito.

Ochwia Biano, capo degli indiani Pueblos, disse degli uomini bianchi: “Le loro labbra sono sottili… le loro facce solcate e alterate da rughe. I loro occhi hanno uno sguardo fisso come stessero cercando sempre qualcosa… sono sempre scontenti e irrequieti… Non li capiamo. Pensiamo che siano pazzi” perché “dicono di pensare con la testa… Noi pensiamo qui” e si toccò il cuore. Die Lu-tzu: “Ogni trasformazione dello spirito dipende dal cuore”, ma è divenuto sordo il cuore di chi ha perduto le proprie origini e allora tutti i valori gli vacillano minacciosamente e i fatti quotidiani ci portano a considerare, drammaticamente, quanto l’inconscio può diventare devastatore snaturando l’uomo.

L’uomo si rivela impotente di fronte a questi accadimenti, per risolvere i quali è necessario un modo diverso di vedere la vita, i propri miti, intesi non come allegoria, ma simboli pregnanti di signfiicato, la perdita dei quali “… è sempre e dovunque una catastrofe morale”. Egli deve porsi  in un rapporto diverso di fronte alla vita, accettare e non sfuggire il confronto con la realtà dell’anima.

Gli alchimisti dicevano “V.I.T.R.I.O.L.” (Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occulum Lapidem) che tradotto suona “Visita l’interno della terra e purificando troverai la pietra occulta”. Ora l’interno della terra è l’inconscio, la purificazione è il processo di trasformazione, per trovare l’ “oro dei filosofi”, per conciliare gli opposti e giungere all “individuazione”. L’ “Interiora Terrae” è dunque quel subconscio popolato di strane presenze. In esso vivono gli archetipi, a proposito dei quali Jung in “Psicologia e alchimia” scrive che con archetipo egli intende il “tipo” nell’anima e “typos” significa “impressione”, ora viene spontaneo chiedersi come si è determinata questa impressione. Rupp non ne fa mistero, allievo della von Franz, annota “… noi semplicemente non sappiamo donde si debba far derivare in ultima analisi l’archetipo”.

Sant’Agostino nel “De Diversis questionibus”, parla di “Idee originarie… contenute nella intelligenza divina”, e gli archetipi si esprimono oltre che nel mito, anche nella “fiaba”; addirittura “… la mitologia sarebbe una specie di protezione..” di questo materiale universale, e le fiabe provengono da quei luoghi remoti, vibranti dentro di noi, luci sacre e pericolose.

Dietro i significati superficiali, della fiaba, se ne celano altri profondi che nascondono veri tesori e indicano la via della trasformazione psichica, che viene svelata con tutte le sue difficoltà, nelle sue tappe obbligatorie. La natura dell’uomo affonda le sue radici nel mito e nella fiaba, e la sua deve essere una natura che è “forza, quella stessa forza che, secondo Lu-Tzu, deve essere armonizzata col cuore. Nel Nuovo Testamento apocrifo si legge “Perciò conoscerete vuoi stessi, perchè voi siete la città e la città è il regno”; anche Zosimo scrive dell’enorme potere che è nell’uomo.

Nell0’alchimia più tarda questa “forza” è simboleggiata dall’ “albero”, simbolo che ritroviamo nelle Upanishad e nei Veda, nell’Apocalisse Giovannea e in molte leggende. Ne “Le avventure di Gilgamesh” leggiamo di alberi che al posto dei frutti hanno pietre preziose. L’albero sovente è raffigurato capovoloto e ciò significa che la “forza” risiede nel cielo. Dante scrive di quest’albero nella “Divina Commedia”, come:

“dell’albero che vive della cima
e frutta sempre e mai non perde foglia”.

Metafisicamente, l’albero manifesta la potenza della natura e nella tradizione si associa ad esso la natura femminile, la morte, draghi o serpi. In psicanalisi, questo simbolo è sia maschile (il tronco) che femminile (perchè da frutti). In ogni tradizione, l’eroe deve ora conquistare i frutti dell’albero, con grande rischio, perché la forza della natura quand’è incontrollata si scatena e distrugge. A tal proposito avverte Jung “Chi crede che l’inconscio sia qualcosa di innocuo…. s’ìnganna”, alcune volte “E’ un po’ come scavare un pozzo artesiano, per finire poi d’imbatersi in un vulcano”. 

L’eroe, per impossessarsi dei frutti dell’albero, deve superare delle prove, rese difficoltose dagli ostacoli incontrati “… per penetrare in un -domnio vietato- che simoleggia sempre un territorio trascendente: il Cielo e l’Inferno. Tutte queste prove, queste sofferenze… si possono facilmente ricondurre alle sofferenze ed agli ostacoli rituali della -via verso il centro-“.

Tutto ciò fa pensare alla via verso il centro dei simboli “mandala”, parola sanscrita che significa “circolo”. Platone credeva che l’anima avesse forma di circolo e i Papua sacralizzano la crescita di un individuo, nell’interno del gruppo, facendolo passare attraverso un cerchio. Il cerchio esprime l’universo, il recinto sacro. Varrone scriveva che le colonie romane in origine erano dette “urbes” da “orbis” che significa circolo, il “Themenos” alchemico.

Jung, a proposito di questo simbolo della meditazione tantrica, appuntò “Solo un po’ per volta scoprì che cos’è veramenta il mandala -Formazione, trasformazione della mente eterna, eterna ricreazione” (Faust parte seconda) è l’Uroboros della “Crisopea” di Cleopatra, il serpente che si morde la corda, con nello spacio centrale sancito “Unoil tutto”, la formula dell’unità, la “funzione trascendente” totalità tra conscio e inconscio, “… il Sé, la personalità nella sua interezza”.

Le prove che l’eroe deve superare stanno a significare le difficoltà dell’autorealizzazione. L’esperienza di trasformazione della psiche ha dei paralleli nella storia dell’uomo. Esermpi sono le pratiche yoga e i riti di iniziazione, ad un certo studio dei quali il neofita si deve sottoporre a lavaggi rituali. Scrive Piantanida che, prima dell’esperimento magico, fece “una doccia abbondante”. Anche nell’esoterismo dell’antico Egitto, l’adepto che aveva raggiunto il secondo grado, quello di “Neòcoris”, veniva “condotto in un’assemblea”, in cui lo Stolista o portatore d’acqua, gli buttava “addosso dell’acqua”, e nella Scuola pitagorica il novizio “apriva il nuovo giorno con un inno ad Apollo, eseguendo una danza dorica: faceva poi le rituali ablazioni”. Nella stessa religione cattolica il sacramento del battesimo lava dal peccato originale e, nel Vangelo secondo Giovanni (III, 5), leggiamo “se uno non rinasce per mezzo di acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio”.

Simbolicamente attraverso l’acqua che rappresenta il ventre della madre, “Senza l’acqua divina nulla esiste”, si ottiene una seconda nascita, una rinascita spirituale, che consente all’iniziato di procedere purificato. E’ la via femminile, lunare, umida, subconscia, della mano sinistra, di cui dicono i filosofi ermetici,  perché essi parlano di “sette rettificazioni” o “sette distillazioni” volendo riferirsi esclusivamente ai “gradi dell’iniziazione”.

Nella fiaba troviamo, nel suo pieno significato, questo rituale. Dove ancora non si è compiuta la rinascita, ancora il corpo funge da ostacolo e in “Pollicino” l’orco grida: “Uccio! Uccio! Sento odor di cristianuccio!”. Analogamente, nella nostra fiaba “A beja d’u mundu” la draga ripete: “Jauru d’omu ccà, jauru d’omu ccà!”. Nell’ “Aceju rapinu” il rituale è stato compiuto debitamente,

La figura del vecchio che si presenta con una certa costanza nelle fiabe, simboleggia la saggezza dello Spirito, infatti il detto popolare “Vecchio, più vecchio, vecchissimo” cela il motivo che l’eroe delle fiaba giunge fino al vecchio nestoreo che detiene la sapienza, insomma incontra un “guru”, oppure il vecchio “Elia” di Jung, “personificazione del vecchio saggio profeta” che “rappresenta l’elemento conoscitivo”. Zelenin, nelle sue “Fiabe russe del governatorato di Pem”, racconta di un vecchio di 500 anni che esce da una casa nella foresta. Nella nostra casa “A beja d’u mundu” leggiamo che il nostro eroe incontra tre vecchi di cui uno ha “a varba e i capiji longhi finu è pedi e i pinnulari tandu longhi che’bbi mu si l’iza cu a manu pemmu ‘u poti vidìri” e, ulteriore testimonianza della insolita vecchiaia dell’eremita è che “ngi vozzi n’ura pemmu s’apri a manigghia ‘i chija porta ch’era chius ‘i tricendu anni”.

Il vecchio appare all’eroe che si è smarrito in una foresta. Questo motivo è oltremodo ricorrente; è presente nelle “Metamorfosi” di Ovidio, nell’ “Eneide” di Virgilio, nell’ “Inferno” di Dante Alighieri, e nella fiaba di pollicino e in tantissime altre ancora. Probabilmente significa che si è venuti in contatto con l’inconscio e si rischia di esserne travolti.

Quando l’archetipo del vecchio si mostra, quindi, vuol dire che l’eroe ha bisogno di aiuto, addirittura la sua è una situazione disperata. Da questa attesa penosa di soccorso può liberarlo solo una profonda riflessione, ma per diversi motivi l’eroe non è capace d ciò. La necessaria conoscenza appare nella figura del vecchio, che assume così un significato di “pensiero personificato”. Il vecchio spinge l’eroe alla riflessione e adotta, per raggiungere lo scopo, l’invito a mangiare qualcosa: “mò scindi l’angiulu e ndi porta nguna cosa” e a dormirci su: “curcati jani”.

Il nostro eroe della “A beja d’u mundu” mangia il cibo offerto dai tre vecchi e riposa; ciò gli dona quella forza spirituale che dovrà ora impegnare per raccogliere tutt’intera la personalità, per fronteggiare adeguatamente ciò che sta per accadere. 

Il vecchio in fondo “è proprio questa adeguata riflessione e concentrazione delle forze morali e fisiche, che si compie spontanea in una regione psichica extracosciente”. Il veccho ora gli accorda l’aiuto magico “mò ti dicu ch’ai pemmu fai” e l’eroe diviene così degno di partecipare ai poteri soprannaturali relativi a quel mondo. Ciò vuole significare una speciale e peculiare qualità  della unificazione della personalità. Il vecchio indica all’eroe le vie che portano alla riuscita, gli dona anche i mezzi necessari per superare i vari pericoli: “Tu ngi jetti sta panetta e vidi ca ti fannu passàri”. E’ evidente ora la relazione tra la figura del vecchio o vecchia e l’inconscio. Secondo Erodoto “Vecchia d’oro” era il “nome attribuito … dai popoli che abitavano nei pressi del fiume Obi, nella Siberia, ad una dea che si identificava poi con la Terra” e la terra è il simbolo dell’inconscio.

Il vecchio, esotericamente, corrisponde alla IX carta degli Arcani Maggiori dei Tarocchi, raffigurante l’Eremita che, con un lungo manto, protegge la debole di una lucerna dalle insidie della notte. Egli è un Maestro invisibile. Salmon dice: “Ci si dice che essi spriritualizzano i loro corpi, che si trasportino in breve tempo in luoghi assai lontani, che possano rendersi invisibili quando a loro piace e che facciano molte altre cose che sembrano impossibili”.

Un detto popolare dice che ogni uomo ha in é la sua sua donna e vicevera; a tal proposito Jung parla di “Anima” di “Animus” che sono archetipi rappresentanti quel lato della psiche che è attinente al sesso opposto, “funzioni che meglio di tutto” potrebbero essere caratterizzate “come personalità” e popolano i meandri di ogni individuo. L’Anima è pure l’immagine che per prima ha portato nostra madre e, in seguito, le donne di cui ci innamoreremo. Sono infinite le forme che essa adotta nel manifestarsi nel mito e nell’arte. Nell’arte, per esempio, è rappresentata dalla Beatrice di Dante.

Questo archetipo riveste un’immagine soccorrevole nell’esempio citato. Altre volte l’Anima può comparie in altri modi. Infatti raramente ha un significato solo. Spesso è complicata con ogni sorta di qualità contrastanti, può anche comparire come demone o strega. Questi due archetipi “rpresentano qualità affettive… difficili a descriversi, che sono di solito percepite come ricche di fascino o numinose”.

L’Anima è anch eil messaggero dell’inconscio e, quando compare, è indice che è terminata la prima parte della vita con la sua necessità di ancoramento all’esterno (il lavoro, la famiglia, la società) e che ora è giunto il momento di confrontarsi con l’aspetto eterosessuale proprio: cioè ora è essenziale un adattamento all’interno di sé.

“In alto il mio spirito si protese, ma, subito, amore
Lo tirò giù: dolor con più forza lo incurva; Così ho percorso della vita
L’arco e ritorno donde mi mossi”. 

L’Animus e l’Anima possono apparire anche sotto forma di cose o altro, se non sono pervenuti al livello della figura umana. Nella fiaba “Acciolina” l’archetipo dell’Animus è presente nel fresco e appetitoso “pèdi d’accia tandu beju, jangu e ténneru” che attrae; infatti la donna coglie il sedano, ma “chija… era a cambagna d’u dragu” che s’infuria e lei, piangente, deve promettegli: “sta criatura chi portu nda panza, quandu nesci v’a dugnu”.

In questo caso l’archetipo seduce e strappa la vita. L’apparire del “mandala” significa che si è sulla via della “trasformazione”; esso è pure l’antidoto al caos, al pericolo. Il mandala, si riscontra nel paleolitico, esso infatti è uno dei più antichi simboli religiosi dell’umanità. Ve ne sono  pure cristiani e, a tal proposito, Jung porta l’esempio di frate Niklaus, dipinto  nella chiesa di Sachsein; esso si compone di sei parti, con al centro la testa incoronata di Dio.

Il cerchio, il centro, il numero, sono le costanti del Mandala. Il numero, secondo i filosofi greci, è l’essenza di tutta la realtà. Pitagora sacralizzò i numeri. Egli è, senza dubbio alcuno, il padre dell’aritmosofia. Scrive la Martinengo che il misticismo dei numeri “è segno evidente che questa forza di entificazione deve avere radici profonde nella natura prelogica dell’uomo” e il pensiero prelogico secondo Bacone è un pensiero spontaneo, spinto da un’urgenza improrogable quanto inconscia, senza che l’intelligenza vi partecipi.

Levy-Bruhl dice che la mentalità popolare scorge nei numeri una “individualità”, e giunge, scrive, Albergamo, alla loro “identificazione… con l’anima”. Nella fiaba si riscontra sovente l’elemento numerico. Nella nostra “A beja d’u mundu” leggiamo “e vidi ca vidi a beja nda li setti veli” e, più avanti, come una protezione, la raccomandazione “e dormi nda setti veli”, la stessa cosa nel racconto “‘U guandu d’u Leuni”, “cumbogghiata nda setti veli”. Identica analogia nell’antichissima storia babilonese “Le avventure di Gilgamesh” che narra “ogni qualvolta Humbaba esce e va in giro, si avvolge in be sette strati di vesti differenti”.

Nella leggenda “La danza dei Narti”, il numero ha le sembianze diuna entità orrida, e l’eroe “prese la spada e la abbatté sul collo del gigante, facendo cadere sei delle sette teste”.

In particolare, il numero sette nel ricordo di tutte le tradizioni, racchiude i valori più importanti dell’uomo e dello Spirito. Il Buddismo attribuisce sette principi all’uomo:”Atma”che signfica “scintilla divina”, “Bodhi” che è lo “Spirito”, “Manas” l’ “Anima”, “Karma Rupa” gli “istinti”, “Shtula Sarira” la “materia”, “Linga Sorira” il “corpo astrale” e infine il “Prana” che è l’ “essenza della vita”, lo Pneuma dei greci, lo Spiritus dei romani o il Ki taoista.

Nell’Apocalisse di San Giovanni il 7 vi ricorre cinquantaquattro volte. Questo numero ha un grande valore esoterico. Infatti “l’età simbolica del maestro è di sette anni”. A questo punto è interessante sapere che nel museo Viennese esistono due medaglie. Su una è raffigurato l’Alighieri, sull’altra Pietro da Pisa, dietro ad entrambe vi sono incise sette lettere “F.S.K.I.P.F.T.” Secondo il Guenon la scritta significa “Fidei Sanctae Kadosh Imperialis Principatus Frater Templarius”. Dante dunque era un Iniziato.

Il numero articolo il simbolo mandala nella sua espressione di totalità comprendente la conciliazione degli opposti, come nel “Caduceo” ermetico e nello “Yin-Yang”. Il circolo sanscrito rappresenta “l’ordine primordiale della psiche totale” e in oriente “la contemplazione meditativa delle immagini yantra a forma di mandala… ha per scopo appunto di creare un ordine interiore nella persona in meditazione”.

Budda ha insegnato “Se fissi il tuo cuore su un solo punto, nulla ti sarà impossibile”. Al centro del mandala c’è il Sé che nel suo senso di totalità include coscienza e inconscio. L’Iniziato “è ora aperto alla libera azione delle sue forze guida interiori… l’anima o la volontà vera agisce nel corpo spirituale come un fermento o un lievito, cambiando e colorando la personalità e trasformanedolo in oro”. Ora il nostro rapporto con l’anima primordiale è svelato. Ciò significa “la conquista del tesoro… del talismano magico o di che altro il mito escogiti di desiderabile”, è l’aurum non vulgi, il padi dei filosofi, il Kintan o pillola d’oro dell’alchimia cinese.

E’ evidente che il soggetto della trasformazione è l’uomo medesimo, “ars totum requirit hominem”, dicevano gli alchimisti. Nello studio dell’inconscio, Jung trova i precedenti storici della sua psicologia dell’alchimia e di ciò egli parla come di un momento decisivo. Scrive che l’alchimia era un legame col passato, lo gnosticismo e un ponte verso la moderna psicologia dell’ìnconscio.

L’approfondimento della coscienza è un fatto illuminante, probabilmente è qusto il motivo della peculiarità solare caratteristica di molti eroi mitici. Peg li gnostici l’uomo luminoso è un scheggia di luce eterna precipitata nella materia buia. L’ero solare è, infine, un uomo totale che si è posto sopra le passione, fuori dal turbinio dei venti. “La forza non crollavali de’ venti, né l’igneo sole co’ suoi raggi addentro li saettava, né le dense piogge penetrava tra lor..” (Odissea, canto V, verso 619) e la sua completezza è rinnovamento dell’uomo  che ha acquisito una superiore coscienza individuale. E’ adesione al mondo, e non una ipertrofica esclusione.

L’ “individuazione” nonè “individualismo” che significa prevaricazione e abusi e rappresenta qualcosa di generalmente disapprovato, infatti “individuandosi l’uomo non diventa egoista nel senso usuale della parola, ma si conforma unicamente ad una sua peculiarità… Ora l’individuo umano, come unità vitale, essendo tutto quanto composto di fattori universali, è del tutto collettivo e quindi non pè unto in contrasto con la collettività”.

La fiaba rivela l’essenza dell’anima, dietro i significati espliciti, “ha occultata” la via che porta alla trasformazione. Non per niente quasi tutte le fiabe finiscono con le nozze del protagonista e nell’opera rosacruciana “Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz” vi è narrato tutto il viaggio iniziatico di Rosenkreutz che alla sua conclusione porta alla Pietra d’Oro, alla illuminazione della coscienza, “dal presente all’eternità” dice Jung. L’iniziato che ha percorso tutti gli “stadi” dell’iniziazione è ora una “Unità Vitale” consapevole della sua natura collettiva. Quello Spirito che tutto pervade, quella forza primordiale che i cinesi chiamano Tao, che è nell’uomo, ma anche “al di fuori di lui”.

Dice Lu-tzu: “Se l’uomo riesce a raggiungere quest’Uno, egli vive; se lo perde muore”.

“Tu, tribù,
guardami,
in un modo sacro,
io ritorno”. 

All’accadere di ciò, la trasformazione è avvenuta. Il rapporto secondo cui il rigenerato sta col proprio corpo non è più quello dell’uomo di prima, e ciò significa una nuova cogninzione esistenziale”. L’uomo che “vive” in antitesi all’uomo che “dorme” non ha operato altro che una simile riconciliazione con le forze della natura. 

Catanzaro 6 dicembre 1978 

Giuseppe Cosco

Fiabe, miti e simboli- un saggio di Giuseppe Cosco
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