Il DIALETTO/I DIALETTI:cuore di un popolo

di Viliana Cancellieri

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     Il DIALETTO/I DIALETTI… suggestione e seduzione della memoria, nostalgica essenza di una terra contadina e del mare, eco di amori conquistati o perduti, atmosfere intime, familiari, giocose, dolorose, vibranti.

Conserviamoli! Amiamoli!

     Il dialetto non è il linguaggio degli umili o il nemico della lingua nazionale, come spesso si sente dire, ma è l’orgoglio delle nostre radici, è il linguaggio che accoglie e facilita il confronto tra presente e passato, tra storia locale e storia generale, tra le “storie” e… la Storia.

Per spegnere il dialetto, dovremmo uccidere il cuore, dovremmo far morire l’uomo, non quello posticcio e artefatto, che turbina mimetizzato nelle convenevolezze delle diverse società, ma quello genuino, quello che infante imparò a piangere, a sorridere e a balbettare in dialetto sulle ginocchia materne (Dott. Filippo Roscini)

       E poi ammettiamolo: i dialetti non sono un’appendice dell’italiano perché non derivano da esso. Sono lingue autonome. L’italiano, alla fine, non è stato un dialetto?!
Il linguista Tullio De Mauro ebbe a scrivere:

“In fondo la lingua italiana cos’è? E’ un dialetto più fortunato di altri!”

     Moltissimi dialetti, ancora oggi, vengono parlati nelle regioni d’Italia ma la loro sopravvivenza, dicono i glottologi, è in serio pericolo. Gerghi, legati alle mode, mettono a repentaglio i coloriti e preziosi dialetti locali.
Dando uno sguardo al passato possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che i dialetti riflettono secoli di storia e non sono una degenerazione della nostra madrelingua: derivano dal latino, da cui derivò anche il dialetto toscano che grandi poeti e scrittori fecero poi assurgere a lingua nazionale.
Pier Paolo Pasolini era uno dei forti sostenitori della necessità di dare dignità di lingua al vernacolo. In un suo ultimo messaggio, prima di essere trucidato, scese in campo contro ogni tentativo di riportare la lingua della comunità a strumento di selezione etnica, esclusiva ed escludente o, nel migliore dei casi, a ripetitiva manifestazione di folclore.
Il grande regista vedeva nel dialetto l’ultima sopravvivenza di ciò che ancora è puro e incontaminato e che deve, dunque, essere “protetto”.
L’uso di un corretto italiano è sicuramente irrinunciabile ma ciò non implica la perdita delle parlate locali la cui vitalità è testimoniata anche dai numerosi “prestiti” concessi alla lingua nazionale per renderla più vivace ed espressiva.
I cittadini, insomma, devono sì sapere usare correttamente la lingua nazionale per farsi comprendere da tutti ma devono anche conoscere il proprio dialetto per mantenere costumi, abitudini e tradizioni che ci rappresentano.
Il mio dialetto… per esempio… Sono una Campana, aperta al confronto, alla conoscenza di altre realtà, idee, usanze; sono amante della lingua italiana pura ma… adoro il dialetto locale, quello che mi tiene legata, in un vincolo indissolubile, alla mia gente; quello che mi trasmette e trasmette i forti colori, gli acri odori e il calore intenso della mia terra.

     Come non gioire, dunque, alla notizia che:
il dialetto napoletano diventa patrimonio dell’UNESCO:è la seconda lingua d’Italia
Il napoletano non è “un dialetto ma bensì una lingua”. A dirlo è l’UNESCO, tanto da riconoscerlo come patrimonio per l’intera umanità. Il mancato insegnamento della lingua napoletana e il suo andarsi man mano perdendo e degradando di valore, ha indotto l’UNESCO a riconoscerla come un “patrimonio da tutelare non solo per l’Italia ma per il mondo intero”.
I modi di dire nel napoletano classico, per la loro vivacità, il loro colore, il loro modo particolarmente efficace di rendere l’idea di ciò che vogliono comunicare, sono stati conosciuti ed usati in tutto il mondo.
   Napoli, crocevia di popoli e di culture e oggetto di svariate dominazioni da parte di popolazioni straniere, ha sedimentato nel suo dialetto le impronte dei passaggi che nei secoli si sono susseguiti.
Fondata dagli antichi greci nel VI secolo A.C. di essi conserva l’impronta in alcuni vocaboli. “Pazziare”, ad esempio, che in Italiano vuol dire giocare, deriva dal greco “pàizein”.
Profonda è stata poi l’influenza del latino (nel 326 a.C la città diventò una colonia dell’impero Romana). Dal termine latino “intras acta”, ad esempio, deriva la parola napoletana “‘ntrasatta” (improvviso). Le successive dominazioni hanno poi fatto il resto.Ajére, che in Italiano vuol dire ieri, deriva dallo spagnolo ayer”. “Canzo”, che vuol dire “tempo” (damme ‘o canzo, cioè dammi il tempo), deriva dal francese “chance”.
Molti termini napoletani sono poi divenuti universali e questo grazie, soprattutto, alla canzone classica napoletana.
Tradurre il dialetto napoletano (come ogni altro dialetto) diventa a volte impossibile. Molti termini napoletani, infatti, non hanno nemmeno un corrispettivo italiano, essendo esse legate profondamente alla cultura e alla storia del posto: come la parola friarielli. I friarielli sono le infiorescenze appena sviluppate della cima di rapa che i napoletani, per necessità, impararono a mangiare fritte nell’olio.
E poi c’è il gesto. Il gesto nel vernacolo partenopeo diventa un completamento della parola, spesso addirittura indispensabile per esprimere appieno il concetto voluto; secondo uno studio fatto a livello mondiale dell’antropologo inglese Desmond Morris, il popolo napoletano è quello che possiede il repertorio più ricco e complesso di gesti nella comunicazione non verbale.
Coloriti, allegri, divertenti, irriverenti, ma anche amari, profetici e cinici sono, poi, i proverbi e i modi di dire napoletani. Vere perle di saggezza.
Non dimentichiamo che Napoli ha una letteratura propria con autori prestigiosi come Salvatore di Giacomo, Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Eduardo de Filippo.

Lingua o dialetto, il napoletano è un patrimonio da difendere

Tarantella-350x436Ah che bell’aria fresca, ch’addore ‘e malvarosa. E tu durmenno staje, ‘ncopp’a sti ffronne ‘e rosa. ‘O sole, a poco a poco, pe’ stu ciardino sponta, ‘o viento passa e vasa stu ricciulillo ‘nfronte. I’ te vurría vasá, ma ‘o core nun mm’ ‘o ddice ‘e te scetá, I’ mme vurría addurmí vicino ô sciato tuojo,n’ora pur’i’, Tu duorme, oje Rosa mia, e duorme a suonno chino, mentr’io guardo, ‘ncantato, stu musso curallino. E chesti ccarne fresche, e chesti ttrezze nere, mme mettono, ‘int’ ‘o core, mille male penziere.
Sento stu core tuojo ca sbatte comm’a ll’onne. Durmenno, angelo mio, chisà tu a chi te suonne. ‘A gelusia turmenta stu core mio malato. Te suonne a me? Dimméllo! O pure suonne a n’ato?  (Vincenzo Russo)

 

Viliana Cancellieri

Viliana Cancellieri

Il DIALETTO/I DIALETTI: cuore di un popolo

Un pensiero su “Il DIALETTO/I DIALETTI: cuore di un popolo

  • 12 Febbraio 2015 alle 16:36
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    E vuoi che non la condivido? Ho avuto la sensazione di setire una vocina sussurrarla!

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