La questione di Capocolonna

di Antonella Policastrese

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       Quella in corso in questi giorni sul promontorio Lacinio, contro l’odioso scempio perpetrato dalla Soprintendenza archeologica della Calabria, potrebbe essere relegata nei libri di storia, (se fosse definita una volta per tutte l’esatta ubicazione della prima), come la “seconda Battaglia di Capocolonna”.

        La prima avvenne nel 982, tra le forze dell’imperatore Ottone di Germania e quelle dell’Emiro di Sicilia. Il campo di battaglia dell’epoca è stato individuato da alcuni storici sul Lacinio, mentre altri affermano che lo scontro tra l’imperatore germanico ed i musulmani ebbe luogo a Stilo.

       Noi crotonesi siamo, però, abituati all’dea che Capocolonna fu scenario di sanguinose e tremende incursioni barbariche, in una delle quali ebbe a soffrirne la sacra Effige della Madonna, data alle fiamme dai musulmani, rimanendone miracolosamente indenne.

      Per la storia, l’esito del sanguinoso scontro fra le truppe di Ottone e quelle dell’Emiro di Sicilia fu avverso ai germanici, che persero 4 mila uomini, seppure l’emiro perì sul campo di battaglia. In sostanza, pur con gravi perdite, i barbari ebbero la meglio quella volta lì.

     A gennaio del 2015, le “truppe” che si fronteggiano dinanzi la chiesetta di Capocolonna, sono quelle della Soprintendenza e del comune di Crotone da un lato e quelle dei comitati spontanei, delle associazioni e dei pentastellati dall’altro. Le truppe istituzionali hanno come insegna una betoniera; quelle antagoniste i simboli della rete e dei social network. Lo scontro è impari, ovviamente, ma mai come adesso e in questa occasione, l’opinione pubblica crotonese era riuscita a dare siffatti segni di esistenza in vita e neppure mai, come stavolta, ha dimostrato di avere così a cuore i luoghi del suo passato. I nuovi barbari, comunque, più o meno dal 2007 in avanti, hanno il pieno e incontrastato controllo di Capocolonna, delle sue ricchezze e del suo destino. La loro azione si è sino a qui contraddistinta per l’incuria e per la totale rinuncia alle attività proprie dell’archeologia, che sono la ricerca, gli scavi e la salvaguardia.

       Un demone di calcestruzzo sembra essersi impossessato dell’ operato di quelle donne e dei propri sodali, sin dal loro insediamento , avvenuto subito dopo l’era di Roberto Spadea e Elena Lattanzi.

      In realtà c’è stata sempre guerra sul fronte dell’archeologia a Crotone, in primis per il pericoloso contrasto di interessi che vanno da quelli legati alle attività estrattive di idrocarburi ( moleste per il Lacinio) a quegli altri connaturati all’espansione urbanistica della città (letali per un concreto sviluppo economico di Crotone basato sulla ricchezza delle preesistenze archeologiche).

      Furono molto aspri, nel recente passato, gli scontri fra i vertici locali e regionali della Soprintendenza archeologica e le espressioni della politica locale che, per interessi propri, davano man forte oscuri mestatori.

     Nelle battaglie che si susseguivano tra cotanti protagonisti, venivano coinvolti altre realtà che avevano (e hanno ancora) forti interessi nel territorio. Si arrivò al punto che l’amministrazione comunale, nel 1994, boicottò la pubblicazione del libro “Omaggio a Crotone” perché edito dall’AGIP, insensibile, secondo gli amministratori e imprenditori locali, alle istanze del territorio, però magnanima nei confronti della Soprintendenza. Poca roba quella magnanimità, a dire il vero, seppure il volume pubblicato all’epoca illustrasse, in tutto il suo splendore e in tutto il suo valore, il risultato di una sensazionale scoperta archeologica fatta dalla Soprintendenza e dall’ Ufficio scavi di Crotone all’epoca in cui l’archeologia era ancora ricerca e tutela e quando ancora l’Ufficio scavi non era stato trasferito a Roccelletta di Borgia.

      Quella scoperta prese il nome di “Tesoro di Hera”; il diadema aureo ne era il simbolo più alto.

      Gli anni che seguirono portarono alla realizzazione del “Parco archeologico e del museo di Capocolonna” al termine di contenziosi, di espropri e demolizioni. Piovvero su Crotone 17 miliardi di lire, cui si andarono ad aggiungere soldi provenienti dalle casse comunali. Ma si scavò; si restaurò; si mise in luce la vastità e l’importanza di quel sito archeologico con quei soldi.

      All’epoca non c’erano i fondi europei e neppure i meccanismi di “premialità” che, ai giorni nostri, attraggono i moderni progettisti ed i cosiddetti “Rup” (responsabile unico del procedimento). Essi intascano quattrini in ragione dell’investimento finanziato e quindi propendono per interventi costosissimi, per lo più destinati ad una malintesa opera di valorizzazione di siti, più che di reperti.

       C’è poi un altro antagonista a Capocolonna, che andava tenuto in debito conto e sconsigliare interventi pesanti su quel lembo di terra che c’è dinanzi la chiesetta. Quel nemico, silenzioso e inesorabile, è il lento e continuo scivolamento verso il mare, con distacchi di falesia che in passato hanno interessato proprio il lato nord-est della chiesetta dedicata alla Madonna.

     Negli anni prima del 2007, all’epoca della gestione Spadea-Lattanzi, ci si interessò anche di questo problema, coinvolgendo anche l’ Eni che a proprie spese realizzò una stazione di monitoraggio della colonna e del promontorio Lacinio. Questa fu allocata nei locali del nuovo museo e chissà se esiste e se è mai entrata in funzione.

        Tra le tante bestemmie, contrapposizioni, radicalismi assurdi e slogan che stanno caratterizzando questa “seconda battaglia di Capocolonna”, c’è chi rimpiange quel quarto di secolo durante il quale a Crotone operarono Roberto Spadea ed Elena Lattanzi. E forse si tratta di un rimpianto fondato, perché poi la Crotone archeologica non fu più la stessa.

        Procedendo con ordine: il trasferimento dell’ufficio scavi a Roccelletta di Borgia, in cambio di un posto di responsabile “dell’Area silana” della Magna Grecia; la sottrazione di aule della scuola “Principe di Piemonte” per depositarvi cassette di reperti sino a giungere all’orrore della villa repubblicana dinanzi la chiesetta di Capocolonna, sepolta da una colata di cemento come fosse uno di quei cadaveri che la mafia voleva far sparire per sempre.

         All’orizzonte c’è poi una ristrutturazione del Castello: un intervento milionario che forse avrebbe potuto essere destinato a opere di scavo e ricerche, persino a sfatare per sempre il mito dell’Antica Kroton; cioè per vedere, come a poker, la reale portata storico-archeologica di quel sito. Eppure, di quel mosaico dei duumviri Thraso e Macer, che giace nelle adiacenze della chiesetta, scoperto da Paolo Orsi e classificato da Roberto Spadea come facente parte del foro romano della colonia marittima, sciaguratamente destinato a essere coperto con una vela di cemento sorretta da pilastri piantati come coltelli nelle carni sul sacro suolo di Capocolonna, se n’è discusso recentemente a Roma, alla “Sapienza” durante la presentazione del volume “Kroton” a cura di Alfredo Ruga.

        Tra il chiasso, la barbarie perpetrata sul Lacinio e la supponenza della gestione archeologica dei siti crotonesi, si è persa l’occasione di capire cosa andava realmente fatto per i reperti che giacciono tra “casa Morrone” e la chiesetta.

       Sicuramente non andava realizzato un parcheggio; perché calcestruzzo e ferro elettrosaldato hanno ben poco di reversibile.

        Basterà un briciolo di buon senso per arrestare quello scempio e sicuramente ciò avverrà.

         Si rende necessario, però,  per evitare altri disastri, l’allontanamento immediato dei vertici locali e regionali della Soprintendenza, seguendo l’orientamento di massima del ministro Franceschini.

Antonella Policastrese

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