Se la nuova politica riparte dall’anti-politica

di Paolo Sannia

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politica e antipoliticaParlando di politica e di anti-politica, potremo certamente asserire che il periodo storico che ci troviamo ad attraversare, risulta essere definibile, per gli ottimisti di “svolta” e per i pessimisti da “ultima spiaggia”. Dove andremo a finire?, è’ certamente uno dei quesiti che domina in ognuno di noi.
Certamente la società contemporanea attraversa un passaggio epocale, immerso nell’incertezza, e in questa trovano il terreno fertile o l’habitat ideale, le paure che maturano connesse ad una crisi economica globale, oramai fuori dal controllo della stessa politica.
Per molti osservatori l’economia reale è stata sopraffatta dalla finanza, ed è questa una logica conseguenza della graduale cessione di importanti quote di sovranità, di scelte e di regole da parte della politica in favore di un sistema economico-finanziario internazionale, definibile come fagocitante nei confronti degli stati-nazione. L’anomalia è palesemente individuabile: l’interesse pubblico è oramai subordinato a quello privato.
In questo contesto il paradigma italiano, oltre ad una complessità riconducibile al paradigma internazionale, ha in se tutta una serie di problematiche di natura endogena, nate e sviluppatesi in un ancor incompiuto sistema democratico – configuratosi nella giovane e ancor debole istituzione repubblicana – entro il quale prevale la logica partitocratica ch’è divenuta – così come le cronache recenti hanno dimostrato – un modello simil-oligarchico, entro il quale sovente prevalgono gli interessi di pochi a discapito della collettività.
Oggi, probabilmente, è giunto il tempo di rischiare: siamo giunti al tempo limite nel quale diviene necessario scegliere, non tanto tra la politica e l’anti-politica, altresì tra la buona Politica e la mala politica: l’Italia è per questo motivo definibile come “perenne laboratorio” dove – a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale e quindi con la svolta repubblicana – siamo politicamente vissuti per un verso ancorati alla rendita da posizione geopolitica derivante dalla logica di Yalta e per l’altro verso, siamo vissuti nell’instabilità conseguentemente indotta dalla stessa logica.
Siamo passati attraverso il terremoto giudiziario e politico di Tangentopoli (partendo dalla famosa inchiesta “Mani Pulite”), triste epilogo della Prima Repubblica (ammesso che la Seconda Repubblica sia mai nata, questa ha rappresentato esclusivamente “l’anima” della Prima reincarnatasi in un nuovo corpo!). Siamo quindi passati attraverso una fase di transizione durata circa un ventennio, durante la quale si annunciava a più riprese la svolta restauratrice del sistema politico, ma che poi ha avuto soltanto l’esito di favorire il caotico passaggio dal primato dell’ideologia al primato della leadership. E’ in questo passaggio fondamentale che affonda le proprie radici l’anti-politica, come luogo di riflessione e magari di restaurazione sistemica. Se così fosse, dovremo iniziare a parlare di ruolo politico dell’anti-politica.

Il problema dell’anti-politica (se così lo si deve considerare!) d’evessere considerato e analizzato come mero fenomeno erosivo della politica e ad essa endogeno: l’anti-politica nasce e si sviluppa dalla politica e nella politica, ed è per questo che potremo definirlo come evento scissorio della stessa e dove a sua volta hanno origine le basi per la nuova politica. Proprio per questo motivo dall’anti-politica non bisogna necessariamente diffidare, o tanto meno allontanarla come il capro espiatorio, ma altresì utilizzarla come specchio per guardare in faccia la realtà e mettere in essere delle serie riflessioni sulla nuova politica che verrà. Dovremo giungere al punto di considerare l’anti-politica quale strumento politico per la transizione verso un nuovo sistema politico, dove la maggiore e possibile partecipazione democratica, attraverso il fenomeno dell’associazionismo politico (vedasi partiti et altro) possa in maniera meramente reale, garantire la governabiltà e la stabilità dell’intero sistema-Paese.
Oggi viviamo in un complesso network cognitivo, configurato e definito nella società della comunicazione. Da ciò non potrà prescindere la Politica e conseguentemente l’alter ego che questa definisce: l’anti-politica. Questo è certamente veicolato attraverso i nuovi standard comunicativi: si è passati da una logica comunicativa che non è più politica ad una logica altresì commerciale; il linguaggio nella comunicazione politica, e purtroppo in quella istituzionale è divenuto fortemente connotato da un’altra logica, quella del marketing.
E non è un caso se un dalemiano di ferro (ex funzionario PCI) come Claudio Velardi lo abbia capito e per questo motivo ne ha fatto una professione – quella del consigliere politico o spin doctor – che operando all’interno del “mercato” vada a pescare trasversalmente i suoi clienti nei diversi schieramenti politici. E’ questa la prova provata – come dicevo in precedenza – che il sistema politico italiano si trovi nel caotico passaggio dal primato dell’ideologia al primato della leadership. Aggiungerei passaggio al primato della leadership senza idee.
Questo passaggio, che a sua volta si configura come profonda crisi di sistema, ha assegnato un ruolo di primo ordine a quella che è stata definita alcuni giorni fa dal politologo Ilvo Diamanti, “la vera anti-politica” fatta con il consenso dei partiti, ovvero sia quella del governo Monti: con un salto mortale con triplo avvitamento, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha consegnato il Paese nelle mani plenipotenziario tecnocrate Monti: obiettivo l’impossibile “germanizzazione” del Belpaese.
Ciò premesso – onde evitare imprecise svolte qualunquistiche o peggio ancora populistiche – è necessario asserire come la storia della “giovane e debole” democrazia italiana non possa prescindere da un’attenta analisi degli eventi; oggi sembra tutto surreale: ci troviamo sospesi nel precipizio, tra il baratro del presente e la speranza nel futuro, e contestualmente si sviluppano – partendo proprio dall’anti-politica – nuovi e continui progetti comunicativi per cercare di catalizzare nel miglior modo possibile il consensus gentium. Ma senza progetti politici reali.
A dimostrazione di quanto asserisco, oggi, non a caso abbiamo Bersani e il Partito Democratico, Di Pietro e l’IDV, Vendola e SEL e così potremo continuare con altre associazioni di tipo politico, definite partiti. Certamente non il contrario come invece dovrebbe avvenire in un normale e moderno sistema democratico. Tutto ciò è figlio della rivoluzione berlusconiana, quella del partito-azienda,ad personam, del culto dei pseudo-totem corrispondenti ai leader ipercomunicativi e proprio per questo definibili come catalizzatori di masse popolari e consensi.
Con Di Pietro ci ritroviamo dinanzi ad una ormai esaurita strategia mediatica, caratterizzata dalla svolta giustizialista e legalitaria: non a caso Di Pietro ha trasformato il suo modus pensandi da PM nell’idea comunicativa divenuta poi un partito politico: il messaggio codificato, ma non meglio comprensibile e paradossalemente criptato, è stato per tanto tempo quello di metter insieme tanti “giudici” (gli iscritti al partito e i simpatizzanti) in grado di effettuare la così detta pulizia sistemica nei partiti e nelle istituzioni. Così non è stato, e il progetto dipetrista si è risolto – considerate le vicende attuali – con l’ennesimo progetto comunicativo per la ricerca dei consensi, ma privo di un progetto politico degno di questo nome, che nell’idea nobile della politica è corrispondente a ben altro.
Sulla scia di questo fallimento, con Grillo ci ritroviamo dinanzi ad un evento politico-mediatico, che rappresenta e si connota con due caratteristiche: la prima – analogamente a quanto detto per Di Pietro e il suo IDV – è che il Movimento 5 Stelle potrebbe esser definito quale collettore e catalizzatore di consensi trasversali, derivante dal mal contento popolare, basato sui luoghi comuni dei fattori negativi connaturati e prodotti in seno alla politica e conseguenti alla perdita di fiducia nei partiti nazionali; la seconda è che il leader riesce a sintetizzare dal punto di vista comunicativo gli stratagemmi berluscon-bossiani, che trovano il fondamento per un verso nella promessa di un sogno e per l’altro verso la cacciata del capro espiatorio attraverso l’insulto. Nell’uno e nell’altro caso, il grillismo non rappresenta una novità, altresì un fenomeno mediatico, privo di un progetto politico “farcito” di molto qualunquismo e populismo.
Allo stesso modo con Vendola ci ritroviamo dinanzi alla svolta “soft” della così detta sinistra radicale: la messa al bando degli slogan – almeno in apparenza – del vecchio partito della “falce e del martello” e contestualemente l’accoglienza delle istanze ambientaliste, oramai prive di una reale “dimora”, in conseguenza del diffusionismo presso la nostra complessa struttura partitocratica. Vendola questo lo ha capito e giuocosamente riesce a catalizzare il consenso popolare: il suo obiettivo non è quello di allearsi col Partito Democratico altresì quello di ridurlo ad “opera incompiuta”, al fine di sostituirlo in alleanza con Di Pietro, ma senza Grillo.
Sopita la promessa giustizialista dipietrista, tentato il lifting della sinistra attraverso il vendolismo (che paradossalmente cerca di spostarsi verso il centro!) e l’avvento della pseudo-novità del Grillismo, lo scenario politico nazionale, domina la logica del “mercato dei consensi” col solo obiettivo di “vendere” ai propri “clienti” dei sogni privi di reali progetti politici. Tutto ciò in piena linea con l’idea del berlusconismo.
Loro malgrado i due “soggetti comunicativi”, risultano essere un prodotto (pur con i dovuti distinguo) del dissenso covato e maturato negli anni della rivoluzione populistica e mass-mediatica berlusconiana, definita e divenuta successivamente berlusconismo. E paradossalmente oggi loro ne rappresentano la degna eredità, autentici fenomeni politico-mediatici che per giunta non si distinguono per la loro originalità: in quanto discendenti diretti del berlusconismo, risultano essere maggiormente generatori di slogan politici piuttosto che di idee politiche e strategie programmatiche utili e funzionali al progresso del Paese. Paradossalemente potremo definirli come dei contenitori politici senza idee politiche, autoreferenziali e solo orientati al mantenimento dello status quo, ovvero del “mercato dei consensi”. Con un distinguo: uno è istituzionalizzato (Vendola con il suo SEL) mentre l’altro attende di esser definitivamente istituzionalizzato (Grillo con il suo Movimento 5 Stelle).
E’ qui – ed in conseguenza di ciò – che probabilmente nasce e si sviluppa il fenomeno dell’anti-politica quale antidoto positivo per il cambiamento politico ed istituzionale del nostro Paese. La posta in gioco è alta e l’anti-politica potrà servire esclusivamente come strumento funzionale al rinnovamento strategico del nostro sistema politico, il quale, ci piaccia o meno, è lentamente ma inesorabilmente diretto verso un’estrema deriva dalla quale ci si potrà salvare soltanto rifondando la Politica, partendo dai principi della nostra Carta Costituzionale.
Concludo ponendomi un quesito: esiste realmente l’anti-politica? E rispondo: probabilmente no, visto e considerato che la realtà dei fatti dimostra il contrario, ovvero che l’ambizione dei movimenti dell’anti-politica è quella di affermarsi popolarmente e di sostituirsi politicamente a quella che loro stessi considerano mala politica presso l’opinione pubblica, cercando nuovi consensi e col fine ultimo di istituzionalizzarsi, passando dallo stato di anti-politica a quello di politica. Il principale problema è che lo si fa nella penuria di buone idee politiche. E in assenza di programmi.
La svolta ideale la si avrà esclusivamente sla nuova politica ripartirà dall’anti-politica, colmando le lacune di quest’ultima con idee e programmi reali.
La vera anti-politica si nutre della carenza di idee politiche.
Paolo Sannia
Paolo Sannia
Se la nuova politica riparte dall’anti-politica
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