La rubrica Balasso 065

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“Ego te autorizzo a far quel cazzo che vuoi coi miei scripti, cum publicatione sul tuo sito, basta che scrivi che son miei” Firmato Balasso

natalino balasso

La gabbia era enorme. Grande quanto una città, grande quanto un pianeta, non so dire, ma era enorme. E non era una gabbia, dico gabbia ma non era una gabbia, era più che altro un sistema di gabbie. E l’efficienza di questo meccanismo era dato dal fatto che i confini della gabbia non si vedevano, non c’erano sbarre, non c’erano serrature, ma erano le cose che le persone potevano comprare, erano i cibi, erano le persone stesse a fungere da sbarre, da serrature, da limiti invalicabili. Ovviamente c’era il rischio che molta gente capisse il meccanismo, si accorgesse di rappresentare gli ingranaggi del meccanismo, perciò qualcuno cominciò a pensare agli oblò.
Gli oblò c’erano da tanto tempo e il loro funzionamento era stato messo a punto, anno dopo anno, da millenni. Gli oblò non avevano mai la stessa forma, erano finestre, erano varchi sulla realtà, o così le persone credevano, così avevano raccontato loro, quindi la maggior parte della gente pensava che gli oblò servissero a leggere il mondo. Gli oblò si potevano trovare in giro per le strade, si potevano guardare entrando in appositi spazi, si potevano anche portare appresso, in tasca o dove si voleva, erano sempre a disposizione; la gente guardava negli oblò perché faceva sempre più fatica a decifrare la realtà e si era convinta di osservare nuove angolazioni, di capire altre porzioni del disegno. Nessuno si chiedeva però se per caso gli oblò non fossero gestiti da qualcuno, quando una persona guardava la realtà attraverso un oblò, ci vedeva anche le altre persone e vedeva anche se stessa e così si convinceva che fosse tutto vero allo stesso modo in cui se noi vediamo la realtà in uno specchio, la presenza della nostra persona rende reale ciò che vediamo.
Ma non vorrei essere frainteso, ho detto finestre ma gli oblò non erano finestre, erano varchi attraverso cui percepire suoni, idee, sensazioni, e tutto questo si poteva tradurre anche in immagini, ma dagli oblò si percepiva molto di più che semplici immagini.
Il fatto è questo: se io ti dico che sono giapponese e tu dici a un altro che io ti ho detto che sono giapponese, quest’altro non avrà voglia di dire che tu gli hai detto che io ti ho detto che sono giapponese e così salterà qualche passaggio, dirà che tu gli hai detto che sono giapponese e qualcun altro comincerà a dire che sono giapponese e quando qualcuno, dopo che questa idea ha fatto il giro del mondo e ha convinto tutti, quando qualcuno dirà a me che sono giapponese e, oltre a lui, altra gente che si è convinta di questo racconto mi dirà che sono giapponese, io comincerò a pensare che, se lo dicono in così tanti, dev’essere vero. E così io mi sarò convinto di essere giapponese. E così io sarò giapponese. Il mio racconto diventerà la mia realtà.
Così funzionavano gli oblò e non c’era modo di riconoscerli, non avevano una forma, non avevano un linguaggio, gli oblò erano come l’acqua, prendevano la forma e il colore e l’odore di ciò che li circondava, erano come l’acqua, non potevi riconoscerli. Gli oblò erano fabbricatori di racconti e a fabbricare quei racconti contribuivano tutti, anche quelli che dicevano di non credere al racconto.
Ecco la grande invenzione degli oblò, ecco la loro funzione: impedire a tutti di capire il meccanismo delle gabbie, attraverso un complesso intrico di racconti che spiegavano le gabbie dipingendole diversamente. Se tu nasci in una prigione, in una cella, e hai due ore d’aria e sei circondato da guardie e da altri detenuti, alcuni saranno tuoi amici, altri no, se tu nasci in una prigione, ma fin da quando sei piccolo tutti chiamano quella prigione con un altro nome e ti dicono che vivi in un castello e che i più fortunati sono quelli che hanno le celle più anguste e ti dicono che le guardie sono persone curiose che amano chiudere le porte a chiave e che tu devi capirle e ti dicono che se qualcuno esce dalla prigione muore, se ti dicono tutto questo, tu ti convinci che non c’è un altro modo di esistere che nella prigione. E il tuo status di prigioniero, diventa per te una vita accettabile e, forse, invidiabile. E così la vita di tutti era il racconto che gli altri facevano e il racconto che loro stessi accettavano e contribuivano a far circolare.
E allora, se vivi in una gabbia e ti dicono che le sbarre sono il simbolo della tua libertà, sono ciò che devi perseguire, tu penserai che più sbarre ci saranno più tu sarai libero. E se ti insegneranno a circondarti di sbarre, a tenerle lucide, se organizzeranno tornei per chi tiene le sbarre più lucide, se sarà premiato chi è più bravo a circondarsi di sbarre, allora più le tue sbarre saranno lucide più tu sarai contento, il meccanismo mentale che serve a farti accettare dalla comunità ti spingerà a cercare la felicità nella prigionia.
E i racconti che passavano dagli oblò narravano di quanto fossero belle le gabbie che, ovviamente, non venivano mai chiamate gabbie. E c’era chi diceva che le sbarre erano costruite male e chi diceva che le sbarre erano costruite bene e tutti pensavano di stare su posizioni diverse.
Ma rispetto alle gabbie no.
Rispetto alle gabbie, tutti accettavano i racconti degli oblò e tutti contribuivano a rilanciarli. E così c’era chi era felice per via delle sbarre o triste per via delle sbarre, ma non per il fatto che ci fossero, tutti davano per scontato che fosse normale che ci fossero, anche perché nessuno le chiamava “sbarre”, era lo stato di quelle sbarre, il rapporto con le sbarre, la distanza tra una e l’altra, le loro misure, a costituire il succo delle discussioni. E gli oblò alzavano il volume delle discussioni più accese, ne mettevano in rilievo i colori, ne sottolineavano la profondità delle idee, e più la gente discuteva sulle forme di quelle sbarre, ma non sulla loro sostanza, più quei racconti rendevano accettabile l’esistenza delle gabbie.
E tutti vivevano in questa enorme gabbia che era il sistema di tutte le gabbie create e giustificate dai racconti delle persone. Nessuno era contento fino in fondo, c’era come un’angoscia dentro ciascuno che nasceva dal fatto che, in qualche recondito meandro della sua coscienza, ogni persona afferrava l’idea di trovarsi nella gabbia. Tutti volevano fuggire, in realtà, tutti volevano trovarsi altrove. Ma la genialità degli oblò consisteva in questo: ogni volta che qualcuno fuggiva dalla propria gabbia, entrava in un’altra gabbia, senza rendersi conto che aveva solo aggiunto sbarre, rafforzando il sistema della grande gabbia.

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Un pensiero su “La rubrica Balasso 065

  • 28 Agosto 2015 alle 16:50
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    ho letto , sembra un racconto dell’orrore . sono pienamente d’accordo . quando sono in ospedale , e ovviamente hai il nulla davanti a te , ecco che i pensieri si affollano e pensi a cosa ci stai a fare in questo mondo di schifo . ecco lei vede oblò e gabbie enormi , io vedo una stanza a due letti da dove non posso uscire . so che chi mi tormenta lo fa per il mio bene , poi arriva la carogna ucraina , rabbiosa , che ti insulta solo perché hai osato suonare il campanello ed in quel momenti pensi che putin ha ragione di essere contro la merkel e l’ukraina .

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