IL VIRUS

di Marco Scarpa

TRAMONTO.PREMUDA

Per dare continuità a ciò che ho scritto la volta scorsa come avvio, sono fermamente convinto che il presupposto per godere della libertà consista nel rispetto per gli altri: l’ essere arroganti o il “fare i furbi” significa mancare di rispetto verso qualcuno e porta immancabilmente a far sì che la società debba dotarsi di regole disciplinari (devi fare questo e non puoi fare quello) che minano la libertà di tutti.
Ovvio che questo modo di pensare è utopistico, ma a me piace; anche perché è un messaggio di pace e non di lotta (o meglio è un messaggio di lotta contro “i furbi”, e qui ci starebbe bene una strizzatina d’ occhio).
Chiarito questo, poiché ciò che sento di poter raccontare su queste pagine riguarda principalmente il navigare sul mare, oggi parlerò di virus.
Sempre più spesso i giornalisti televisivi ci propongono come notizie ciò che da millenni fa parte della normalità; per la verità anche i loro colleghi della carta stampata fanno lo stesso, ma in misura assai più moderata.
Sono nella memoria di tutti notizie tipo:
24 luglio – “Intensa ondata di caldo ha colpito le nostre città”.
Oppure:
3 gennaio – “Il ciclone Attila in arrivo: temperature polari e neve anche in pianura per tutta la settimana”.
O ancora:
20 febbraio – “Non accenna ad esaurirsi il virus influenzale di ceppo caucasico di quest’ anno”.
Certo se le date fossero invertite saremmo tutti d’ accordo che una spaventosa ondata di caldo il 3 gennaio farebbe notizia…ma così non è, né sarà mai.
Tralasciando per ora il tema delle previsioni meteorologiche su cui ci sarebbe da dire una vagonata di cose che probabilmente dirò, oggi vorrei sottolineare qualcosa sui virus, piccolissimi e vigliacchi accidenti che periodicamente, specie durante le mezze stagioni, provano particolare piacere nell’ assalirci e condannarci a febbroni da cavallo, interminabili e ripetute sedute al wc, appesantimenti alla testa che tende a prendere il peso di un container, debolezze interminabili e intermittenti doloretti spasmodici alle ossa.
Poiché medico non sono e appartengo invece alla schiera di quei fortunati (o scriteriati) che vanno per mare, è bene che mi presenti.
Non ho mai fatto il giro del mondo.
Non ho mai navigato nei Quaranta Ruggenti o nei Cinquanta Urlanti.
Non mi sono mai trovato a lottare con le onde gigantesche delle depressioni australi, né ho mai dovuto ricorrere a chissà quali metodi empirici o derivati dalla moderna tecnologia per individuare la presenza di un iceberg.
Non ho mai visto planare un albatro dalla sommità di un frangente dei mari del sud nella vivida luce di un cielo scintillante.
Non ho mai visto brillare in cielo la Croce del Sud.
Non ho mai veleggiato sotto la neve con i winch (argani manuali per tesare le manovre) incrostati di ghiaccio.
Non ho mai issato due trinchette gemelle (tipo di vela), né sono mai entrato negli alisei.
Capo Horn l’ ho visto solo in fotografia.
Addirittura non ho mai visto un oceano.
Posso dire che in barca a vela ho navigato solo sui mari attorno all’ Italia e che non ho mai preso parte all’ Admiral’s Cup o alla Coppa America.
Non ho mai avuto alcuno sponsor che, mettendomi in mano qualche milione di dollari abbia detto: “Pensaci tu, basta che vinciamo!”.
Non ho la minima idea di come sia fatta la sede del Newport Racing Offshore Yachting Club, o del Royal Sailing Yacht Squadron, o dell’ International Sailing Offshore Committee, o tantomeno dello Yacht Club Cote-Emeralde, né ho mai visto la riproduzione dello Spray (non è una bomboletta, ma è la prima imbarcazione da diporto ad avere fatto il giro del mondo) o toccato una lamiera del Joshua (che a sua volta non è la marca del sushi in scatola, ma è la barca con la quale Moitessier ha fatto quasi due giri del mondo senza scalo).
Posso dire solo di aver vinto qualche regatina di circolo con alcune delle barche che ho posseduto, ma erano sempre regate in cui il numero delle coppe era uguale o superava quello degli iscritti.
Insomma altro non sono se non uno dei tanti, così tanti che, se non ci fossimo, la Barcolana sarebbe una regatina come un’ altra ed il mondo del giornalismo sportivo italiano avrebbe tutte le buone ragioni per dedicarsi sempre e solamente al calcio.
Invece siamo in tanti, anzi in questi ultimi anni siamo diventati proprio tanti.
Abbiamo tutti una barca a vela, grande o piccola, giovane o vecchia, alle volte anche antica.
Alcuni di noi l’ hanno ormeggiata sotto casa, altri devono consumare molto tempo e molta benzina per riuscire a toccarla.
Alcuni di noi la amano con tutta l’ anima e lo dichiarano apertamente (anche alla moglie o alla morosa); altri, pur amandola con la stessa intensità, dicono agli amici di odiarla perdutamente.
Bene, non esiste alcun regolamento, né alcuna restrizione, né tantomeno alcun criterio prefissato che stabilisca come è il rapporto tra un uomo e la sua barca a vela, perché le regole le ha fissate il mare tantissimo tempo fa; esse non sono mai cambiate ma a noi comuni mortali non è dato di conoscerle, eppure da anni ci sforziamo in mille modi per scoprirle; attraverso il lavoro dei pescatori prima e dei marinai poi; attraverso le esperienze dei primi maestri d’ ascia e in seguito dei primi architetti navali; attraverso le imprese di qualche “matto” che ha osato l’ inosabile e che è tornato a raccontarcelo; attraverso le sfide delle regate e i primi dati sperimentali di laboratorio; attraverso l’ evolversi delle tecnologie e le invenzioni dei nuovi materiali; attraverso le simulazioni possibili solo tramite l’ informatica; attraverso gli scambi culturali e le esperienze degli equipaggi composti da uomini provenienti da quasi tutti i paesi del mondo.
Eppure….
Eppure basta che il mare lo voglia, e le barche che abbiamo progettato si sfasciano o si capovolgono e ci troviamo ancora ignoranti come eravamo un tempo.
La presunzione non può esistere tra noi.
Lo sappiamo tutti, è lui che comanda, è lui che governa il timone della nostra barca.
Dalla parte della barra c’è la nostra mano, ma dall’ altra parte, strisciante lungo le superfici della pala, c’è sempre e soltanto lui, il mare.
E’ lui che ci fa inchinare e ci ridimensiona.
Ecco perché siamo in tanti e ciononostante ci sentiamo fratelli: perché il mare ci accomuna indipendentemente da quanti metri sia lunga la nostra barca e da quante stagioni siano passate sulla sua coperta.
Se tu che leggi non ti sei mai trovato a bordo di una barca a vela, la lettura di queste righe (e delle prossime) potrà senz’ altro essere molto istruttiva per te.
Esse potranno infatti aiutarti ad abbandonare del tutto l’ idea di diventare proprietario di una imbarcazione a vela e di metterti a navigare; potranno senza alcun dubbio farti vedere che il mondo è molto più piacevole se visto da un molo piuttosto che dalla coperta di una barca a vela da diporto, che esistono gli aerei per scavalcare mari e oceani, ed inoltre che, se proprio vuoi stare vicino alla “liquidità” dell’ ambiente marino, esistono anche le navi.

BAR-04B-807
A beneficio di chi non lo sapesse le navi sono dei veicoli molto grandi (dove quindi ci si può muovere agevolmente), molto asciutte (le fiancate sono molto distanti dall’ acqua), molto veloci (per pian che vadano impiegano un quinto del tempo impiegato da una barca a vela, filano cioè a venticinque nodi contro i cinque di una barca a vela), sono dotate di mense e ristoranti molto efficienti (con tanto di cuoco e camerieri che servono in tavola) e quasi sempre risultano essere stabilissime (questione di onde).
Chiedo scusa, ma ritengo doveroso trattare un breve digressione sulla ultima riserva espressa tra parentesi.
L’ onda é di per sé una entità relativa, in quanto essa si forma e viaggia senza sapere contro chi o cosa andrà a sbattere.
Sono fermamente convinto che se il mare sapesse che una delle sue creature (l’ onda, appunto) andasse a sbattere sul mascone di una barca a vela lunga settevirgolacinque metri e dislocante unavirgoladue tonnellate, senz’ altro le impedirebbe addirittura di formarsi e di muoversi.
Il mare è forte e potente finché si vuole e ci mette molto spesso in soggezione facendo di tutto per umiliarci, ma mica è una carogna.

ONDA.BORA
Cosa ne può sapere lui se quell’ onda va a sbattere proprio contro quella fragile barchetta a vela, oppure nel suo peregrinare non va ad appoggiarsi sulla fiancata di un traghetto lungo centoquarantasei metri e dislocante venticinquemila tonnellate ?
Come può il mare avere la possibilità di seguire e controllare il formarsi e il propagarsi delle svariate migliaia di miliardi di onde che si formano in ogni istante ?
Sarebbe come pretendere che un ufficiale della Guardia di Finanza potesse controllare istante per istante il desiderare, il richiedere, l’ ottenere e il far sparire all’ estero tutte le mazzette di un mese di appalti pubblici regionali.
Risulta pertanto ovvio che la stabilità è un concetto del tutto relativo: ci sono onde che possono far danzare il rock ‘n roll ad una barchetta a vela, ed onde che riescono a trascinare sulla pista di ballo persino una nave.
Ma quante sono queste ultime rispetto alle prime ?
In tal senso il lettore privo di esperienze di navigazione su barche a vela da diporto dovrebbe quindi interpretare il consiglio dato poco fa: viaggiare per mare in nave è senz’ altro meglio che viaggiare in barca.
Riprendendo il tema, la lettura di queste righe e di quelle che seguiranno in futuro potrebbe quindi avere una certa utilità: potrebbe insegnare alcune cose sulla scelta o sulla condotta di una barca a vela, divertendo il lettore con le disavventure che invariabilmente capitano a chi pratica della vela, ma potrebbe anche, evidenziando le esperienze fatte da altri, scoraggiare il lettore dall’ acquisto di una barca a vela (ed anche a motore).
Potrebbe addirittura mettere in ridicolo tutti coloro che praticano la navigazione a vela in modo tale che il lettore si senta immediatamente portato a prendere le distanze da tali persone.
Purtroppo però leggere queste righe potrebbe anche contagiarlo facendogli prendere una malattia non più tanto rara ma assolutamente incurabile: trattasi di un virus i cui sintomi iniziali hanno le parvenze di un gioco; in seguito esso colpisce con giovanile eccitazione e con spese avventatamente sproporzionate; quindi fa apparire le prime rughe sulla pelle portando il malato ad un crescendo di spese talvolta scriteriate; infine si esaurisce prossimamente alla vecchiaia, lasciando il convalescente inspiegabilmente ricchissimo nonostante i danari scialacquati !
Si tratta di quella malattia che più ci spoglia delle ricchezze venali, più ci riempie di ricchezze spirituali: è l’andar a vela, virus quanto mai pernicioso che però giornalisticamente (e per fortuna) non fa notizia.

Marco Scarpa

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